mercoledì 18 luglio 2012

Vecchioni, Mann, Visconti e ... La morte a Venezia


Nel 1911, Thomas Mann aveva 36 anni. Sicuramente suggestionato da una visita a Venezia e dintorni e dalla morte di Gustav Mahler, scrisse “La morte a Venezia”.

Questo breve romanzo è un gioiello secondo me imperfetto. Troppo pensiero appesantisce una idea eccellente. Definisco la situazione con un raro paradosso. “La morte a Venezia” è un capolavoro ma.....poteva esser scritto meglio. Thomas Mann pensava troppo. Sempre. Ma era un fenomeno, quindi le sue ubriacature di pensiero non danneggiavano mai troppo le sue creature. Secondo me l'arte non deve mai essere troppo pensata. Deve essere vissuta sia per chi scrive che per chi legge. Si deve lasciar fare a quell'io che è veramente il nostro e che spesso deve difendersi da noi, che sappiamo farci male.

Porto un esempio. Immaginate una persona che decide che non vale la pena vivere. Arriva a questo esito perché ha elaborato significati tremendi su quanto gli è accaduto. Potrebbe anche avere ragione, non è questo il punto ma, immaginiamolo che si stende di notte sulle rotaie. Sente arrivare il treno, chiude gli occhi, istintivamente tira tutti i muscoli, sente il treno passare e, misteriosamente è ancora se stesso. Apre gli occhi e scopre di essere in piedi a qualche metro dal luogo del “delitto”. Mi raccomando, non è una favola. Son cose che accadono, ed è il corpo che dice: “ok. Se ti seguo, mente mia, qui si finisce male! Che ne dici se ora comando io?” ed ecco i sensi che si riaccendono. L'olfatto si fa sottile, il tatto curioso e il mondo immediatamente interessante. La mente si arrende all'evidenza della sua incapacità di elaborare un senso e affida alla gioia della corporeità un nuovo inizio. L'importante è che mai mai mai, la mente comandi da sola! E anche che la pura corporeità sia solo un inizio....



Ecco descritto per eccesso quel che sento essere il comportamento di Mann. Il fatto stesso che scrivesse tutti i giorni.... è vero che ognuno ha il suo metodo ma, almeno per me, la scrittura non è e non sarà mai un mestiere! Scrivo quando mi va. Quando ho qualcosa da dire. Se me lo imponessi quotidianamente come faceva lui, diventerebbe per me una nevrosi, una dipendenza che potrebbe diventare ossessione. La vita è già così piena di doveri che almeno la letteratura sia un canto libero!



Comunque lui era così e la visita a Venezia sommata alla morte di un grande, condizionò, rese sensibilissimo il suo essere. La storia è semplice. Uno scrittore arriva a Venezia e vede un ragazzo di una bellezza irreale. Ne è sconcertato e attirato. Per quanto abbia letto che Mann fosse probabilmente un omosessuale mentale (ma esistono?) non credo che il punto di partenza in lui sia stato questo. La morte di un amico addosso, Venezia che più che essere una città è un sogno (Venezia, più inverosimile di ogni altra città....), e la bellezza, questo enigma affascinate che ti gira intorno, inconsapevole di se stessa e per questo pura. È nel guardarla, con la sensazione di morte addosso, nasce una ipnosi profonda. Uno stadio fra la vita e la morte, un essere che non è quel che eravamo fino a qualche giorno prima. Tutto perde senso. Solo la bellezza, in quel palcoscenico irreale che è Venezia, ora ha valore, ed essa è.... “danzante al centro del tempo e dell'eternità”.

C'è un'epidemia. Lo scrittore decide di non partire. Meglio morire con la bellezza che ti vola intorno che vivere da essa distante con la mediocrità della quotidianità che causa questo incontro si è fatta insostenibile.



Ricordo che qualche anno fa lessi una notiziola di circa tre centimetri quadrati. Era morto quel nobile dell'Est che Mann vide e che fu l'idea di Tadzio. Tre centimetri quadrati. Peccato.



Ma quel romanzo ha seminato.

Propongo una domanda. Esiste un film più bello del libro dal quale è stato tratto? Secondo me si, ed è “La morte a Venezia” di Luchino Visconti. In esso quell'aspetto troppo mentale che soffro nel libro, non c'è, la mania estetizzante di Visconti si fa poesia e l'ideale di bellezza pura, palpabile agli occhi. Un capolavoro. Se capitate ad Ischia, vi chiedo di mettere un fiore sulla sua sepoltura posta nella sua casa.



Devo dire comunque una cosuccia su questo comportamento, che giudico malsano, di “estrarre” film da romanzi. Se una sensibilità si è fatta parola, si vede che quella era la sua forma. La successiva metamorfosi in immagini potrebbe essere aberrante e lo è infatti quasi sempre per due motivi; spesso il regista non ha capito a fondo quel che ha letto (quel tipo che ha trasformato tutta l'opera di E.M. Forster in film è per me il caso più triste....) e non ha l'umiltà per rendersene conto.... e, secondo ma non ultimo, come fai a rendere ciò che non è solo trama, ma anche pensiero, profumo della mente e del cuore?

Esiste secondo me un altro film che fa miracoli. Si tratta di “Solaris” di Andrej Tarkovskij. La fonte è il romanzo omonimo di Stanislaw Lem. Accade che la base dell'idea sia la medesima, ma poi film e libro si evolvono in modo quasi indipendente. Due prodotti nati dalla stessa radice ma affascinanti per motivi diversi. Stiamo comunque parlando di Visconti e Tarkovskij, di Mann e Lem due più due fenomeni, universalmente riconosciuti...



Secondo me un film deve nascere per conto suo. Il regista ha un'idea, o qualcuno che lui conosce ce l'ha, e poi la fa crescere in sé o in un gruppo, eventualmente con la collaborazione di qualche personaggio degno di stima. Penso per esempio a Fellini, che oltre ad essere bravo dietro la macchina da presa, cioè nel ruolo specifico di regista, sapeva fare gruppo appunto con le menti più valide che incontrava. Flaiano, Pinelli, Guerra e anche Mastrojanni, che non era semplicemente un attore come attualmente si intende, ne sono un esempio. Essi sono legati a quei film al punto che in futuro si dirà che Amarcord è di Fellini-Guerra e “Otto e mezzo” e “La dolce vita” sono di Fellini-Flaiano e quel capolavoro che è “La notte” che ora si considera di Antonioni, diverrà di Antonioni-Flaiano-Guerra., considewrando che poi che lo zampino del bel Marcello grattava sempre un po' la sua parte e se la faceva aggiustare ovviamente con l'accordo di tutti....



Un'idea per il cinema quindi, secondo me deve essere appositamente predisposta. Prendiamo l'esempio della descrizione di un profumo. Essendo questo senso di fatto escluso sia dalla letteratura che dal cinema, per forza di cose si dovrà agire in modo indiretto, e sarà un esito con le parole e tutt'altro con le immagini. Portiamo ora l'esempio sul vedere; io per esempio vedo qualcosa di meraviglioso. La letteratura deve descrivere e ti mostra dall'interno l'esito emozionale di quel vedere, il cinema ti mostra chi guarda dall'esterno e serve un grande attore, un tecnico luci notevole e un regista non da meno. È tutto troppo diverso, troppo distante per poter credere che l'operazione di travasare un'opera fatta di parole, in immagini mobili, sia un atto non volgare .... ma accade e la superficialità, che ha più vita della sensibilità, sembra che goda nel veder immaginato da altri quel che dovrebbe sforzarsi di creare in sé con le proprie forze. Penso che vedere un film dopo avr letto un libro, sia un atto di pigrizia colossale.....



Visconti per ora, è secondo me l'unico che è riuscito appunto a “travasare” un libro in un film accentuandone addirittura il valore!



Ma... la seminagione innescata dal romanzo di Mann non è finita!

Qualcuno ha scritto una canzone.....



Vi racconto come accadde che me ne resi conto....

Ero in macchina. La radio manda questo brano di un cantautore che stimo. Rallento, alzo il volume e “catturo” le parole una per una, con attenzione e fu subito per me una delle più belle canzoni d'amore mai scritte. Andai in negozio, la comperai e me ne ubriacai letteralmente per giorni senza rendermi conto che....

Decisi, quando ormai quasi la sapevo a memoria, di leggere accuratamente le parole allegate al cd. Ed ecco la mia sorpresa. Non si trattava di una ragazza, ma di un ragazzo. Già il titolo mi aveva insospettito. Era “La bellezza” e dopo, fra parentesi (Gustav e Tadzio). Quindi Mann, pensai, quindi “La morte a Venezia”, quindi si canta un ragazzo e non una ragazza. Io sono etero, ok, ma come ho fatto a non rendermene conto?



Ecco la spiegazione. Frugo nel testo scritto. Solo in un punto il dato diventa concreto. C'è proprio scritto “ragazzo”, ma nel cantarlo, Vecchioni l'ultima vocale se l'è “mangiata” oppure, oppure io ho trovato in fondo non quel che c'era ma quel che desideravo trovare.... ? ho riascoltato e secondo me vince la prima opzione. Vecchioni si è” mangiato” la “o” di ragazzo e io son volato via immaginando la mia Laura, la mia Beatrice.



Ecco il testo:



Passa la bellezza nei tuoi occhi neri, scende sui tuoi fianchi e sono sogni i tuoi pensieri.

Venezia “inverosimile più di ogni altra città” è un canto di sirene, l'ultima opportunità;

Ho la morte e la vita tra le mani coi miei trucchi da vecchio senza dignità: se avessi vent'anni ti verrei a cercare, se ne avessi quaranta, ragazzO, ti potrei comprare, a cinquanta come invece ne ho, ti sto solo a guardare....



Passa la bellezza nei tuoi occhi neri e stravolge il canto della vita mia di ieri; tutta le bellezza, l'allegria del pianto che mi fa tremare quanto tu mi passi accanto...



Venezia in questa luce del Lido prima del tramonto ha la forma del tuo corpo che mi ruba lo sfondo, la tua leggerezza danzante come al centro del tempo e dell'eternità:



Ho paura della fine

non ho più voglia di un inizio;



ho paura che gli altri pensino a questo amore come un vizio;



HO PAURA DI NON VEDERTI PIU'

DI AVERLA PERSA...



TUTTA LA BELLEZZA

CHE MI FUGGE VIA

E MI LASCIA IN CAMBIO I SEGNI

DI UNA MALATTIA.



TUTTA LA BELLEZZA

CHE NON HO MAI COLTO

TUTTA LA BELLEZZA IMMAGINATA

CHE C'ERA SUL TUO VOLTO



TUTTA LA BELLEZZA



SE NE VA IN UN CANTO



QUESTA TUA BELLEZZA



CHE E' LA MIA...



MUORE



DENTRO



UN CANTO.





Un mio racconto già terminava con quella parte di versi che ho scritto in maiuscolo e che considero un vero capolavoro ( i versi ovviamente, non il racconto!)



scopro così che avevo ambiato due significati: uno legato alla O di ragazzO, che ho riportato in maiuscolo anche nel testo, unico “Luogo” che definisce il sesso della figura cantata. L'altro, legato alla malattia. Mi spiego: “tutta la bellezza che mi fugge via e mi lascia in cambio i segni di una MALATTIA”; ecco, dal romanzo si tratta dell'epidemia. Lui rimane per godere di quella bellezza e sarà contagiato. Sa che corre questo rischio ma se ne disinteressa. Io invece, avendo ignorato che si trattava de “La morte a Venezia”, avevo immaginato che la visione della bellezza lasciasse i segni di una malattia, di una follia, di una incapacità di vivere dopo aver bevuto tanto splendore, e la quotidianità che si fa ormai piccola e gretta, insopportabile.

Dovevo cambiare qualcosa nel racconto? No. “Colpa” di Vecchioni che si è masticata una vocale. E a me va bene così? La mia sarà una ragazza e la malattia una lieve follia. Ci sta. Così la sento. Ed ecco che un capolavoro, viene addomesticato a proprio uso e consumo? Solo per la malattia in questo caso, poiché ritengo che la sensazione profonda data dalla visione della bellezza, come dell'amore, al di là del soggetto sul quale la vediamo, sia identica per tutti ed è un'estasi rara che Vecchioni ha descritto magistralmente. In questo caso, questo lieve fraintendere equivale a rendere il testo più universale. Io non riuscirò mai a cantare fra me e me “se avessi quarant'anni, ragazzo, ti potrei comprare”!. No, proprio non va. Si spegne tutto. E tenendo conto della possibile universalità del senso della bellezza quando si fa estrema, conio il mio angelo per avviarmi verso quella visione totale che ancora non mi appartiene....



E poi accade che il fra intendere non sia distorcere. Ricordo che sentivo cantare un'aria da opera. La gente diceva “ah l'amore, l'amore è un dardo” e invece nel libretto c'era scritto “ ah l'amore, l'amore ond'ardo”..... piccolezze. L'importante è cantare.....



E nel caso di Vecchioni, ci prendiamo una scorretta licenza nel fra intenderlo? Direi che devono vivere in noi due interpretazioni, quella che tiene conto del romanzo di Mann e l'altra che con un artificio rende il brano accessibile anche al tipo di bellezza che più sentiamo nostra......poiché, fino a quando abbiamo un corpo, le bellezze la decidono i sensi e, più li dominiamo, e i sensi nel frattempo si addormentano per le loro gioiose fatiche, più, forse, se non moriamo troppo semplicemente di nostalgia, ci eleviamo e la bellezza si fa sferica, immensa, unica.



E quelle tre età!

Se avessi vent'anni ti verrei a cercare

se ne avessi quaranta, ragazza, ti potrei comprare

a cinquanta come invece ne ho, ti sto solo a guardare.



La densità di queste immagini, che contengono l'estasi incontrollata dei vent'anni. Si ama, si parte, solo quello conta. E i quaranta. Ormai sei in grado di controllarti, sei diventato duro, scabro, a forza di urtare e lottare, e pensi che la soluzione sia il volgare atto di “comprare” del prendere. E poi i cinquant'anni, la distanza che si fa invalicabile anche per i soldi, e puoi appunto, solo guardare.



È poesia.



Ovviamente tutti noi conosciamo ottantenni palestrati, griffati e ben viagrati che vanno a caccia senza pudore....ma quando non c'è il pudore, non quello del corpo, quello dell'anima, non ci interessa....



ricordo (vado a memoria) dei versi di Borges che qui calzano divinamente:



La vecchiaia

questo è il nome che gli altri gli danno,

potrebbe essere un periodo stupendo.



Morto l'animale,

o quasi è morto,

restano l'uomo e l'anima....



Questa è l'umanità che vale, che canto, che considero.

Esistono i vent'anni per andare a cercare e poi si trasformano, lentamente, è ovvio, in anni accumulati nei quali si impara a controllare l'animale, e l'uomo e l'anima si giocano la vita.



….e questa è l'unica via nella quale credo per arrivare alla bellezza.....


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